Gaetano Donizetti mise in musica il Canto XXXIII dell’Inferno della Divina Commedia, quello celeberrimo sul conte Ugolino, dedicando la sua composizione al celebre baritono Luigi Lablache. Il testo musicale manoscritto, parzialmente autografo, fu vergato a Napoli, con la data 10 aprile 1826: è conservato nella Biblioteca del Conservatorio di Milano ed è consultabile online. La prima edizione a stampa fu quella inclusa nella “Gazzetta Musicale di Milano” del 1843.
Gaetano Donizetti, uno dei massimi operisti italiani della prima metà dell’Ottocento, nacque a Bergamo il 27 novembre 1797. Penultimo di sei figli, visse i primi anni in un ambiente angusto, sito in borgo Canale nella Bergamo Alta, ricordato dallo stesso Donizetti come triste tugurio “ov’ombra di luce non mai penetrò”. Le prime notizie sul suo percorso musicale iniziano dal 1806 quando fu discepolo di Simone Mayr presso le lezioni caritatevoli di musica per giovani musicisti indigenti. Mayr, all’epoca rinomato operista, avvicinò il giovane Donizetti al mondo del teatro musicale a partire dagli anni scolastici. Inviato a Bologna nel 1815 da Mayr stesso, Donizetti perfezionò gli studi di contrappunto e composizione e ivi scrisse il suo primo lavoro teatrale, la scena lirica in un atto Pigmalione (rappresentata per la prima volta soltanto il 13 ottobre 1960 al Teatro Donizetti di Bergamo). Il suo esordio avvenne il 1818 al teatro S. Luca di Venezia con Enrico di Borgogna, che nonostante il buon successo non permise ancora un’ampia risonanza per via della preminenza di Rossini in quegli anni. La sua consacrazione avvenne nel 1822 al teatro Argentina di Roma (contratto ottenuto sempre con l’intercessione di Mayr) con l’allestimento di Zoraide di Granata.
Il nome di Donizetti cominciò a circolare per la penisola e prima fra tutte Napoli gli aprì le porte dei suoi teatri: la città partenopea si presentò al giovane bergamasco come sede ideale per consacrare definitivamente la sua fama. Firmato nel 1827 un contratto con l’impresario Domenico Barbaja, che lo impegnava a produrre quattro opere all’anno, Donizetti si stabilì a Napoli e compose lavori prevalentemente comici, raggiungendo un grande successo con l’Elisir d’amore (1832). Sempre nella città partenopea, fu nominato direttore dei Teatri Reali e accettò la cattedra di composizione al Conservatorio. La profusione e la facilità di scrittura di Donizetti era legata a una frenesia compositiva dovuta sia al di mestiere sia all’innato carattere, ma non ne risentirono affatto la naturalezza espressiva, il ritmo incalzante
dell’azione musicale e la varietà sonora realizzata della sua timbrica.
Il suo grande valore emerse dall’aver dato piena voce allo spirito ottocentesco nell’opera, ad esempio in Anna Bolena (1830, teatro Carcano di Milano) o Lucia di Lammermoor (1835 al S. Carlo). Donizetti rappresentò con maestria il tragico dissidio amore-morte, esigendo un linguaggio meno stilizzato, meno fiorito e tale da raffigurare con maggiore immediatezza le emozioni psicologiche dei personaggi. Bellini e Donizetti presero ad accostarsi a un linguaggio per l’epoca
realistico, sopprimendo o riducendo le fioriture e l’ornamentazione nel canto delle voci maschili e, a volte, anche in quello delle voci femminili. Fu il primo passo verso la verosimiglianza del linguaggio vocale e il secondo fu costituito da melodie che si sviluppano in un motivo semplice, tenero, malinconico, in pieno spirito di Sehnsucht romantica. A questo periodo risale tra l’altro la riforma attuata dal compositore bergamasco nella disposizione dell’orchestra: per ottenere gli effetti sonori richiesti dall’azione scenica, dispose le famiglie di strumenti a emiciclo attorno al maestro iniziando dagli archi e creando cosi una disposizione rimasta nell’uso e applicata definitivamente dalla pratica moderna.
Lasciata la terra natia, Donizetti trovò ampia fortuna anche a Parigi con la riproposizione di opere in versione francese o con nuove produzioni come La fille du régiment (1840), La Favorite (1842) e Rita ou le Mari Battu, rappresentata
postuma. Parentesi importante fu anche l’attività musicale a Vienna nel 1842 quando ricevette la nomina a maestro di cappella e compositore di corte. Infine nel luglio del 1845, ritornato a Parigi in condizioni di salute assai precarie, compromesso dalla sifilide, diede segni di instabilità mentale al punto che fu
internato nel ospedale psichiatrico di Ivry-sur-Seine. Grazie all’intervento dell’ambasciata austriaca a Parigi, gli fu consentito di tornare a Bergamo, dove morì l’8 aprile 1848. Sepolto nel cimitero di Valtesse di Bergamo Bassa, nel 1875 la salma del compositore fu esumata e i resti trasportati in S. Maria Maggiore e deposti nel monumento scolpito da Vincenzo Vela accanto a quello di Simone Mayr.
Per ulteriori approfondimenti si rinvia al Dizionario biografico degli Italiani.
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L’esecuzione è affidata al baritono Luca Micheletti in duo con il pianista Davide Cavalli (Ravenna, Piazza San Francesco, 5 settembre 2020, concerto inaugurale delle Celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri).
Testo della composizione
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo.
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.
Perciò non lagrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”.
Queta’ mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”.
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ‘l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
Che se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata
e li altri due che ’l canto suso appella.
Noi passammo oltre, là ’ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l’ambascia;
ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, sì come d’un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,
già mi parea sentire alquanto vento;
per ch’io: “Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?”.
Ond’elli a me: “Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
veggendo la cagion che ’l fiato piove”.
E un de’ tristi de la fredda crosta
gridò a noi: “O anime crudeli
tanto che data v’è l’ultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
un poco, pria che ’l pianto si raggeli”.
Per ch’io a lui: “Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna”.
Rispuose adunque: “I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo”.
“Oh”, diss’io lui, “or se’ tu ancor morto?”.
Ed elli a me: “Come ’l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Atropòs mossa le dea.
E perché tu più volontier mi rade
le ’nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade
come fec’ïo, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.
Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l’ombra che di qua dietro mi verna.
Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso”.
“Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni”.
“Nel fosso sù”, diss’el, “de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,
che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che ’l tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi”. E io non gliel’apersi;
e cortesia fu lui esser villano.
Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?
Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.