Per iniziativa di Giuseppe Verdi, alla morte di Gioachino Rossini prese forma l’idea di scrivere una Messa da requiem in onore del musicista pesarese scomparso. Si creò una commissione per elaborare il progetto: la messa avrebbe dovuto essere eseguita il 13 novembre 1869 nella basilica di San Petronio, a Bologna, esattamente un anno dopo la morte di Rossini. Le varie sezioni della Messa erano state affidate ai musicisti italiani più apprezzati: da Cagnoni a Pedrotti, da Boucheron a Mabellini, con il Libera me Domine composto da Verdi che lo utilizzerà in seguito nel suo Requiem. Ad Antonio Bazzini toccarono le prime due terzine del Dies irae. Ma poco prima dell’allestimento, per il diniego dell’impresario del Teatro Comunale di Bologna, Luigi Scalaberni, a concedere solisti, coro e orchestra, l’esecuzione non ebbe luogo. La partitura, pur completa in tutte le sue parti, giacque per lungo tempo nell’oblio. Ritrovata da David Rosen nel 1986, ebbe di seguito le sue prime esecuzioni che
rimangono comunque ancora rare.
Come lo stesso Bazzini rilevava con intelligenza in una lettera al duca di San Clemente (7 luglio 1869), senza aver mai esaminato le varie sezioni, l’opera non poteva certamente rivelarsi un lavoro stilisticamente unitario: «Se tutti i maestri saranno animati dallo spirito medesimo di conciliazione ed anco di abnegazione, forse qualche cosa che rassomigli ad una tal quale unità di concetto potrebbe venirne fuori… ma ne dubito assai… Io non ho mai approvato quell’idea di Verdi, ma non potei ricusarmi dall’incarico».
Pierluigi Petrobelli ritiene la Messa “opera composita, e insieme documento di una volontà comune”.
Il Dies irae (le prime due terzine della sequenza della messa funebre) è musicato da Bazzini con un coro poderoso e incalzante, accompagnato da un’orchestra grandiosa: il tutto pare preludere alla potenza del Dies irae nel Requiem verdiano. Il testo della Messa da Requiem – definito da Bazzini nella stessa lettera “magnifico” – portò poi il compositore a musicarlo per intero. Rimase solo un abbozzo di cui non si conosce la sorte.
Crediti per le immagini: Archivio Ricordi, Biblioteca Queriniana di Brescia.